«Tecnologie digitali, biotecnologie e ingegneria ecologica utili per sostenibilità e transizione verde»

Essenziale la formazione per utilizzare al meglio tutti i dati. La robotica sarà strategica per le pmi agricole

«Ogni tecnologia implica cambiamenti di carattere organizzativo, di approccio, di marketing, di interazione col consumatore. Il tema non è solo guardare l’aspetto tecnologico, ma affrontare gli aspetti di innovazione organizzativa, sociale e istituzionale. Per essere chiari: nell’agricoltura italiana, se non si cambiano alcuni elementi di base, anche le tecnologie rischiano di non attecchire».

Con queste parole il professor Gianluca Brunori, ordinario di Economia Agraria all’Università di Pisa e presidente del Comitato Consultivo sulla digitalizzazione in agricoltura dell’Accademia dei Georgofili, invita l’agricoltura italiana al cambiamento, a modificare l’approccio alle tecnologie in chiave di flessibilità, condivisione, sostenendo in particolare che sarà grazie alla formazione che si potranno utilizzare al meglio tutti i dati che le tecnologie digitali sono in grado di raccogliere ed elaborare. Ma per interpretare al meglio i dati, saranno ancora figure sempre più specializzare, come l’agricoltore o l’agronomo digitale, a fare la differenza e a tracciare la linea di sviluppo.

In occasione dell’evento di presentazione di Fieragricola TECH, in programma a Veronafiere i prossimi 1 e 2 febbraio 2023, abbiamo rivolto qualche domanda al professor Brunori, per cogliere gli elementi essenziali del futuro della digitalizzazione in agricoltura.

Professor Brunori, di quali innovazioni ha bisogno l’agricoltura italiana e quali sono le soluzioni tecnologiche e digitali più facili e più utili da introdurre?

«Penso che la combinazione tra le tecnologie digitali, biotecnologie e quelle dell’ingegneria ecologica siano alla base di tutta l’innovazione futura, soprattutto se la vogliamo calare l’agricoltura all’interno della transizione ecologica, che mi sembra sia sempre di più una necessità. Se vogliamo dunque coniugare la transizione ecologica alla sostenibilità economica, ambientale e sociale, non possiamo fare a meno di tutti e tre gli elementi: tecnologie digitali, biotecnologie e ingegneria ecologica. E sono altresì convinto che, più che delle modifiche genetiche, siano estremamente importanti gli aspetti legati alla conoscenza, ai dati che un tempo nemmeno si pensava di ottenere e che aiutano gli agricoltori a operare, a fare diagnosi, dalla fenotipizzazione all’interazione fra specie, la comprensione dell’ecosistema; strumenti che sono di grande aiuto, soprattutto per una visione ecosistemica che spesso manca».

Professor Gianluca Brunori, ordinario di Economia Agraria all’Università di Pisa

Il primo cambiamento è legato alla conoscenza e alla mentalità di analisi.

«Esattamente. Se guardiamo all’ingegneria degli ecosistemi e all’agroecologia notiamo che sono mondi considerati meno tecnologici, perché non ci sono sviluppi di applicazioni come macchine o applicazioni tangibili, ma riguardano conoscenze che sono fondamentali. Pensiamo alla conoscenza della biodiversità funzionale o a quegli elementi che garantiscono la resilienza. Ecco, le tecnologie ci possono aiutare a comprendere gli aspetti sistemici e facilitare un approccio più aperto».

Dove intravede maggiori spazi per l’adozione di nuove tecnologie digitali?

«Vi sono gradi opportunità in molti settori, perché le tecnologie hanno un range di applicazione immenso, dai trattori ai software. Le potenzialità sono enormi, in particolare con riferimento ai software, che potrebbero sviluppare un fenomeno che definirei l’Amazon dell’agricoltura, anche per il rischio di creare dei giganti della sensoristica e della raccolta dei big data. Rispetto agli strumenti che hanno avvicinato i produttori ai consumatori, che sono esplosi, per le tecnologie in campo aperto i tempi di calibratura dei modelli sono più lunghi. Sicuramente vi sono grandi spazi di affermazione per tutte le tecnologie social che consentono all’agricoltore di migliorare la propria organizzazione aziendale e la propria attività; sono a basso costo perché bastano la connessione internet, l’infrastruttura e l’applicazione. Non sono ancora sicuro che vi siano condizioni di sviluppo tali a livello di rete e in grado di raggiungere tutte le aziende e garantire una copertura, ma se devo vedere uno sviluppo futuro lo vedo così, con un’azienda agricola che sottoscrive un abbonamento con una ditta di service, ottiene grazie ai droni o al satellite le mappe di prescrizione e le interpreta, ottenendo indicazioni utili per l’azienda. Il tutto riducendo al massimo le attrezzature che vengono acquistate e attivando servizi on demand. Serviranno naturalmente fornitori di servizi, tecnologie cloud e tecnici disponibili ad utilizzare i dati raccolti con una mentalità che guarda proprio ai big data come fattori di crescita. Ritengo più utile incentivare le piattaforme che sviluppano conoscenza, accumulano dati e permettono di elaborarli e interpretarli, sempre che si risolvano i temi della cessione e del registro dei dati».

Per contrastare il fenomeno dei cambiamenti climatici dove è più opportuno investire, se parliamo di innovazioni tecnologiche?

«Sul versante della lotta al cambiamento climatico è innegabile che i satelliti rendono più preciso il monitoraggio, la previsione degli eventi meteo, sono utili non solo agli agricoltori, ma rappresentano in alcuni casi u vero e proprio servizio pubblico. Se gli agricoltori potessero essere integrati in rilevazioni di dati ad ampio spettro ne beneficerebbero sicuramente in termini di previsione del rischio, aspetti meteorologici, gestione delle operazioni in campo dalla semina alla distribuzione dei fitofarmaci, alla raccolta e così via. Vi è forse un aspetto che potrebbe frenare gli agricoltori dalla condivisione dei dati».

Quale?

«Se gli agricoltori condividono in dati sono più facilmente controllabili. È un bene dal punto di vista pubblico, meno per chi è sotto controllo, non certo per sostenere che gli agricoltori non vogliano essere controllati, ci mancherebbe, ma il rischio potrebbe verificarsi nel caso in cui anche un piccolo sbaglio potrebbe essere un grave danno per l’azienda agricola. E questo potrebbe frenare lo sviluppo della digitalizzazione. Sarà dunque necessario riflettere su come la Pubblica Amministrazione potrà incentivare l’adozione di piattaforme per la condivisione dei dati e per l’uso efficace dei dati, senza che questo si trasformi in un boomerang per le imprese. Il nodo è oggi in parte nel fatto che non tutti sanno usare gli strumenti per ottenere i dati».

I risultati del 7° Censimento dell’Agricoltura hanno evidenziato una maggiore specializzazione delle imprese agricole, una crescita dimensionale delle stesse, una tendenza a ridursi di numero. L’adozione di tecnologie innovative influirà su queste tendenze oppure il percorso di flessione del numero di imprese e operatori è ineluttabile?

«Per alcuni aspetti la digitalizzazione ha accelerato questa tendenza. Le tecnologie digitali che ora funzionano meglio sono legate alla monocoltura. Inoltre, chi ha sviluppato un’economia di scala è in grado di sfruttare meglio le tecnologie. Chi, al contrario, ha agricoltura diversificata ha più difficoltà, per il fatto che sono tecnologie pensate per grandi colture o monocolture oppure per le serre, dove c’è già un notevole livello di digitalizzazione. È dunque vero che la digitalizzazione ha accompagnato la concentrazione delle imprese agricole.

Si tratterebbe ora di dare indirizzo diverso. Dobbiamo chiederci questo: se è vero che la perdita di superficie agricola utile (Sau) è nelle aree collinari e montane, cosa potrebbero fare le nuove tecnologie? Bisogna lavorare pertanto nel contesto, perché la sparizione dell’agricoltura c’è non solo dove si perdono aziende, ma anche Sau, dove cioè prevale il bosco in maniera incontrollata. Ho l’impressione che serva un forte investimento nel recupero di queste aree, che è la caratteristica delle nostre risorse in collina e montagna e dove le tecnologie digitali possono dare una mano. Dirò di più: una delle opportunità per le aziende di piccole dimensioni o nelle aree svantaggiate è data proprio dalla robotizzazione, un fenomeno che potrebbe ribaltare il trend di contrazione delle aziende e della Sau, perché i robot sono più adatti alle piccole dimensioni che non alle grandi. Penso ai robot che diserbano nei vigneti. Se la superficie è ristretta, come nei vigneti o nelle serre, il robot è in grado di sopperire al fabbisogno di manodopera, che non si trova più. E l’impressione è che la robotizzazione in agricoltura possa essere di maggiore aiuto dove le aziende sono di piccole o medie dimensioni. Credo, infatti, che vi siano ampi spazi di crescita per piccoli robot collegati fra di loro, che sostituiscono proprio la manodopera più intensa. A ben vedere, si potrebbe pensare a una piccola agricoltura robotizzata che aiuta imprenditori agricoli con un certo livello di anzianità. Sarebbero soluzioni in grado di frenare l’abbandono. E sarebbe utile anche per contrastare la presenza di animali selvatici, per informatizzare sistemi di allontanamento, per riportare l’agricoltura lì dove se n’è andata.

Le tecnologie digitali, quindi, sono sufficientemente flessibili da rispondere a esigenze diverse, ma bisogna capire per avere successo quale direzione dare. Se ad esempio vogliamo puntare sull’agroecologia, come sembra, bisogna chiedersi quali sono le tecnologie che possono supportare e gestire la biodiversità, anziché semplificarla. La digitalizzazione può essere molto utile nell’applicazione di biotecnologie e tecniche di biologia sistemica, in grado di compiere screening biologici complessi e tutelare la diversità. In questo senso assistiamo a un mutamento che è avvenuto a livello di agricoltura: una prima ondata di tecnologie digitali sfruttava la diversità per riportarla all’omogeneità, mentre in un’azienda diversificata la diversità viene esaltata e, invece di ridurla, si cerca di aumentarla grazie alle tecnologie e all’innovazione, perché è un valore aggiunto, che garantisce maggiore resilienza e circolarità. Ma tale percorso di crescita deve essere realizzato insieme a chi sviluppa le tecnologie e non viceversa».

Sono più efficaci tecnologie e soluzioni al servizio della singola impresa oppure soluzioni tecnologiche che possono mettere in rete e far dialogare più realtà? Quali dovrebbero essere gli accorgimenti per un’attuazione più concreta delle innovazioni?

«In generale la nuova ondata digitale, anche quando è contenuta all’interno di una macchina, si basa sulla condivisione dei dati. Il vantaggio è che la macchina riceve i dati, li trasmette, li condivide, i dati a loro volta vengono ritornati alla macchina e tale processo consente alla macchina di migliorare l’efficienza.

Se devo pensare a un futuro digitale, penso all’idea dell’azienda connessa, soprattutto attraverso dei servizi, grazie a strumenti e sensori per rilevare innanzitutto le informazioni e inviarle al cloud, prima di essere elaborate e interpretate da persone specializzate come l’agricoltore, l’agronomo, l’assistente tecnico, che diventano un agricoltore, un tecnico o un agronomo digitale. All’agricoltura deve arrivare un’informazione molto semplice, che richiede una forte elaborazione a monte e richiede ecosistemi di impresa, struttura, raccolta ed elaborazione dati».

La nuova Pac che impulso potrà dare alle nuove tecnologie digitali?

«C’è stato un lavoro per creare piattaforme di raccolta e condivisione dati, ma si sarebbe potuto fare di più, anche se ci sono ancora margini per migliorare il Piano strategico nazionale che, per quello che conosciamo, avrebbe potuto essere più ambizioso. Il rischio è che i soldi vengano spesi in macchinari e che gli agricoltori li acquistino senza però utilizzare i servizi che ne giustificano l’investimento. Al contrario, dovremmo invitare i contoterzisti a investire in macchine e tecnologie, perché hanno numeri diversi e lavorano sull’efficienza».

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