Intervista a Diana Lenzi – Presidente del Ceja, l’organizzazione dei giovani agricoltori europei
Diana Lenzi (Ceja): accesso al credito e formazione per un vero ricambio generazionale. L’agricoltura del futuro? Per l’Europa la strada è la qualità e le indicazioni geografiche.
Presidente Lenzi, quali sono gli ostacoli che oggi in Europa non consentono un adeguato ricambio generazionale? Perché l’agricoltura non è attrattiva?
«Essenzialmente sono tre i fattori che complicano il ricambio generazionale e sono talmente interconnessi fra loro, che è difficile capire come semplificare il sistema in maniera efficace.
- Il tema più pressante per il coinvolgimento dei giovani in agricoltura è l’accesso al credito, che si lega inevitabilmente all’accesso alla terra. Mi spiego: se non possiedo il fattore terra e devo necessariamente acquistarla e sono un giovane in entrata nel mercato del lavoro è molto improbabile che il settore creditizio arrivi ad incentivare il giovane senza che siano concesse garanzie dalla famiglia. In questo modo, però, non si incentiva il progetto del nuovo insediamento da parte di un giovane.
- Accanto al bene terra vi sono, poi, tutta una serie di elementi necessari alla vita dell’impresa agricola, che sono gli strumenti produttivi, gli investimenti in ricerca per fare innovazione, nuove tecniche, nuove tecnologie: si tratta di costi non indifferenti che vanno ad aggiungersi e che rendono difficile l’accesso di un giovane in agricoltura.
- Il terzo ostacolo è dato dal mercato, perché accedervi non è semplice e richiede un impegno economico. È un aspetto poco considerato, perché normalmente viene dato per scontato che l’accesso al mercato sia automatico, ma non è così e in alcuni casi sono necessari alla base grandi investimenti».
Queste difficoltà valgono solo per il sistema italiano o è difficile anche negli altri Stati europei? Il Ceja rappresenta circa due milioni di giovani agricoltori di 22 Stati membri dell’Ue, oltre ai giovani imprenditori agricoli del Regno Unito e della Serbia.
«Si tratta purtroppo di problemi abbastanza diffusi, con sfumature e percentuali che possono essere diverse, ma c’è una sostanziale analogia di fondo. In Italia possiamo contare su un sistema in grado di assicurare maggiore valore aggiunto alla produzione, grazie alla qualità, alla storia e al sistema produttivo stesso, caratterizzato anche da una forte ossatura di indicazioni geografiche. Tuttavia, i costi per i giovani agricoltori che magari hanno una visione innovativa, una spiccata sensibilità verso la sostenibilità, sono alti, mentre servirebbe un sistema creditizio che li sostengono in una dinamica di lungo periodo».
Le misure che i Programmi di sviluppo rurale dedicano ai giovani sono utili?
«Così come sono impostate non svolgono nel migliore dei modi la loro funzione e, anzi, talvolta soffocano il giovane, perché non sono calibrate nel tempo».
Cosa servirebbe?
«Servirebbero degli incubatori, sistemi più legati alla start up come modello culturale e di sostegno, anche perché ci troviamo in un momento tale per cui le aziende precostituite, che dovrebbero fare un salto generazionale, stentano a chiedere al figlio di subentrare».
I giovani sono normalmente più propensi a innovare. Ritiene che la formazione degli agricoltori e degli operatori sia adeguata alle sfide che attendono il settore?
«Assolutamente no. È tutto da rifondare dall’inizio, dagli istituti tecnici. Mi sono ritrovata nelle parole pronunciate dal premier Draghi nel suo discorso di insediamento: serve una formazione fatta sulle conoscenze di oggi, strumenti che ai giovani serviranno fra 10 anni. Non possiamo limitarci a far studiare un giovane sui vecchi testi, dobbiamo parlare di digitale, innovazione, ricerca scientifica, dobbiamo fare in modo che gli studenti possano avere competenze legali, di mercato, una visione di lungo periodo, perché viviamo in un sistema che è sempre più complesso, strutturato, burocratico. Diciamolo: ai giovani manca la competenza, perché il sistema educativo è rimasto indietro. Dobbiamo formare i giovani al futuro».
La Pac prevede un sistema Akis. Può essere una risposta?
«Noi dobbiamo parlare prima ancora che agli operatori, per i quali appunto è prevista la possibilità di ricorrere al sistema europeo Akis, agli studenti. Dobbiamo raccontare l’agricoltura di oggi, le sfide dell’agricoltura di precisione, le opportunità del digitale. Se non offriamo stimoli interessanti, purtroppo i giovani guarderanno altrove, verso altri settori».
Come immagina l’agricoltura nel 2050?
«È una domanda tutt’altro che semplice. Non so se siamo in una spirale discendente o se siamo in una spirale ascendente e abbiamo tirato il freno a mano. Non so se siamo a un punto in cui per rispondere ai cambiamenti climatici dobbiamo prendere in considerazione un enorme spostamento dei sistemi produttivi e dobbiamo riflettere su quanto e come produciamo e su quanto e come consumiamo. Indubbiamente stiamo facendo uno scatto culturale per cercare di modificare le abitudini dei cittadini. Se ci riusciremo non lo so, ma se arriveremo a mettere in atto questo cambiamento, e mi auguro che ci si arrivi, avremo una razionalizzazione a livello globale dei consumi, degli scambi commerciali, dei rapporti.
Vi sarà un’evoluzione verso le carni prodotte in laboratorio?
Non me lo auguro e francamente non so se sarà effettivamente quella la direzione. Ritengo comunque che l’agricoltura europea, che può contare su produzioni di altissima qualità, di alto valore aggiunto e che è orientata verso un pubblico preparato, attento, consapevole, debba perseguire una strada diversa. Per il futuro dovremo essere consapevoli dei punti di forza dell’agricoltura italiana ed europea, lavorando per produrre in maniera sostenibile, che sarà l’altro elemento chiave per essere competitivi sui mercati internazionali».