Agrisolare e agrivoltaico: differenze, opportunità, prospettive

Dai fondi del Pnrr alle prospettive di crescita per agrisolare e agrivoltaico, fra meandri normativi e opportunità di investimento per rilanciare le energie rinnovabili in agricoltura. L’Ufficio stampa di Fieragricola ne ha parlato con Andrea Brumgnach, vicepresidente di Italia Solare, associazione di promozione sociale che sostiene la difesa dell’ambiente e della salute umana supportando modalità intelligenti e sostenibili di produzione, stoccaggio, gestione e distribuzione dell’energia attraverso la generazione distribuita da fonti rinnovabili, in particolare fotovoltaico.

In occasione della presentazione di Fieragricola TECH, in programma a Veronafiere i prossimi 1 e 2 febbraio, abbiamo approfondito con il vicepresidente di Italia Solare Andrea Brumgnach alcuni aspetti legati all’agrisolare e all’agrivoltaico, misure entrambe sostenute all’interno del Pnrr, alle quali possono accedere anche le imprese agricole.

Vicepresidente Brumgnach, ci aiuti a fare chiarezza: qual è la differenza agrisolare e agrivoltaico?

«Il parco agrisolare è definito dalla misura del Pnrr che fornisce incentivi per realizzare impianti fotovoltaici sui tetti delle aziende agricole, dimensionati sul fabbisogno energetico delle stesse aziende. L’agrivoltaico è quell’installazione che viene fatta sulle coltivazioni, sui campi, quindi a terra, permettendo la coesistenza di fotovoltaico e attività agricola e pastorizia sottostante. È un’opportunità di integrazione del reddito agricolo».

Quali sono le prospettive di sviluppo dell’agrisolare e dell’agrivoltaico in agricoltura? Avete individuato un target di imprese agricole che meglio rispondono all’esigenza di multifunzionalità?

«Dal nostro punto di vista chiunque, all’interno della propria azienda, può ricavare degli importanti benefici, ovviamente commisurati alle dimensioni e all’attività che svolge. Non è possibile definire a priori la portata del vantaggio, anche se riteniamo che il ROI (Ritorno sull’Investimento) sia sempre superiore al 20%. Nel parco agrisolare il contributo pubblico a fondo perduto varia dal 40 al 60% e viene concesso per impianti dai 6 kW a 500 kW: visto che l’impianto deve essere dimensionato in funzione dei fabbisogni energetici dell’azienda, ogni realtà potrà beneficiare di un enorme vantaggio in termini di autoconsumo dell’energia prodotta con conseguente aumento dell’indipendenza energetica che è la principale soluzione per mitigare il caro energia.

Quando invece parliamo di agrivoltaico ci riferiamo a impianti che non devono sottostare a vincoli dimensionali e quindi, potenzialmente, parliamo di impianti che possono coinvolgere ettari di terreno e quindi impianti fotovoltaici da MW. Quello dell’agrivoltaico, a differenza dell’agrisolare, è un investimento di natura più finanziaria con investimenti tipicamente dell’ordine dei milioni di euro. Mentre per l’agrisolare l’investimento è rivolto all’autoconsumo ed è realizzato dall’impresa agricola, nel caso dell’agrivoltaico parliamo di impianti realizzati per cedere tutta l’energia prodotta alla rete; molto spesso l’agricoltore, o il proprietario del terreno, è interessato a cedere il diritto di superficie (di durata trentennale) a soggetti di estrazione finanziaria, fondi di investimento o grandi imprese. In questo modo si viene a creare una rendita economica che si aggiunge a quella derivante dalla coltivazione del terreno, creando un importante beneficio in termini di diversificazione della redditività. E’ interessante notare come in alcuni casi l’agrivoltaico comporta un beneficio aggiuntivo anche per la coltivazione in quanto l’impianto fotovoltaico crea un riparo alle colture in caso di temperature molto elevate o in caso di eventi atmosferici violenti, come nel caso della grandine».

Possiamo già parlare di prezzi di affitto e di dimensioni minime degli impianti, nel caso dell’agrivoltaico?

«Non ancora. I numeri non ci sono perché vi sono alcune variabili che fanno la differenza. Ad esempio: l’impianto fotovoltaico dove è posizionato, in Sicilia o in Veneto? Perché fra le due regioni vi è circa un 30% di differenza di produzione, dovuta all’irraggiamento solare. Un’altra variabile dipende dalla rete di connessione: qual è la distanza da percorrere per collegarmi alla rete? In questo caso, il Veneto è mediamente molto più ‘magliato’ rispetto alla Sicilia. Un altro elemento di discrezionalità riguarda l’altezza di installazione dei moduli: più in alto vado, magari perché sotto coltivo vite o mais, più aumentano i costi di investimento. In ogni caso, la valutazione del canone è legata al ritorno dell’investimento.

Quanto alle dimensioni, l’ordine da tenere in considerazione è il megawatt. Si cerca di avere impianti di almeno 5 megawatt per diluire i costi fissi: questo significa utilizzare superfici dai 5 ai 10 ettari in funzione delle coltivazioni sottostanti che definiranno l’inter-distanza fra i moduli e quindi la superficie complessiva interessata dall’impianto».

Qual è il trend di crescita? Quali sono le prospettive di sviluppo del settore?

«Ad oggi ci sono molti progetti in via di sviluppo e quindi in attesa di autorizzazioni e alcuni impianti in costruzione. Le potenzialità sono enormi, si parla di Gigawatt. La variabile che potrebbe dare un impulso vivace alla realizzazione di impianti è legata alle auspicate semplificazioni e alle normative, che dovrebbero essere chiare e uniformi su tutto il territorio nazionale. Si sta andando in quella direzione, ma con fatica: basti pensare che per gli impianti a tetto sotto i 200 kW è stato da poco introdotto il “modello unico semplificato” che, valendo in tutta Italia, comporta un cambio epocale in chiave di sburocratizzazione.

La conferenza Stato-Regioni dovrebbe identificare le aree idonee e dovrebbe allo stesso tempo essere istituto il “Burden sharing” ossia la quota minima di rinnovabili che ogni regione si deve impegnare a realizzare. Oggi tutto questo è in itinere».

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